Trieste: la vendetta postuma di Rusinow
1. Un dilemma che dura da decenni
Nel 1960, lo studioso americano Dennison Rusinow — esperto acuto e fuori dal coro, autore anche di “Italy’s Austrian Heritage, 1919–46” — scriveva un rapporto dal titolo chiarissimo: “Trieste: The Economic Dilemma”. In quelle pagine non c’è traccia di sentimentalismo, ma un’analisi chirurgica di ciò che Trieste è e non può non essere: un porto internazionale, non un avamposto nazionale. Il documento metteva in evidenza la follia di voler legare il destino economico della città alle politiche romane, incapaci di comprenderne la funzione naturale di emporio aperto al centro Europa.
Già allora, i dati erano impietosi: solo il 16% del traffico ferroviario in uscita da Trieste era diretto all’Italia, mentre il 59% andava verso l’Austria. La città, economicamente, non aveva mai smesso di appartenere alla Mitteleuropa. L’incompetenza dell’amministrazione italiana era sotto gli occhi di tutti: burocrazia miope, disoccupazione al 44%, fuga dei giovani, pressioni politiche per zittire chi criticava lo status quo.
Trieste era già allora esclusa dalle grandi rotte internazionali, schiacciata da un nazionalismo sterile, svuotata del suo potenziale portuale. I triestini, scriveva Rusinow, erano convinti che la città stesse meglio sotto lo status di Territorio Libero con Porto Franco. Avevano ragione.
2. Oggi come ieri: la nuova recita geopolitica
Oggi Trieste viene celebrata nei think tank americani e nei vertici NATO come snodo strategico del Corridoio India-Medio Oriente-Europa (IMEC), e come terminale ideale del Trimarium.
La premier italiana Giorgia Meloni ha definito Trieste “centrale per il futuro strategico dell’Italia”. Peccato che la regia sia sempre altrove. Gli USA la vogliono base logistica NATO. La Germania controlla il 50,01% della Piattaforma Logistica tramite una società di Amburgo, la Hamburger Hafen und Logistik AG (HHLA). La Cina è stata scacciata da un diktat americano. E l’Italia? Fa da spettatrice nel “proprio” porto, applaudendone con entusiasmo l’esproprio — dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, che non è mai stata realmente sovrana né ha mai compreso e posseduto davvero Trieste e il suo porto.
Il progetto IMEC è ancora sulla carta. E ora anche il bluff si rivela: Israele ha appena approvato la costruzione di un muro militarizzato di 400 km sul confine con la Giordania, esattamente sul tracciato previsto della “Via del Cotone”. Sensori, postazioni armate, presidi permanenti. E ciononostante, politici italiani e locali continuano a parlare della “grande opportunità per Trieste”. Altro che strategia: questa è una colossale presa per il culo, infiocchettata da Washington e servita all’Italia come fosse un privilegio.
E qui entra in scena uno dei protagonisti più grotteschi della Trieste post bellica: Antonio Paoletti, presidente di Confcommercio Trieste, che propone che lo scalo diventi una base logistica per rifornimenti bellici. Lo stesso Paoletti che da vent’anni promuove, con ostinazione tragicomica, il fantomatico Parco del Mare — un mega acquario mai realizzato, che dovrebbe rilanciare l’economia triestina come se bastassero pinguini e foche per rianimare una città. E che incassa anche 8 milioni di euro pubblici stanziati dalla Regione FVG: soldi dei cittadini, per un progetto privato.

Via della Seta: l’unica traiettoria che rende Trieste ciò che fu e potrebbe ancora essere.
3. Trieste, laboratorio del declino sovrano italiano
Trieste è il paradigma di un paese che ha smesso di pensare in termini autonomi. La svendita del porto, la trasformazione delle autorità portuali in S.p.A., e la totale assenza di una visione industriale disegnano un quadro tragicamente chiaro.
E la cartolina dell’assurdo si completa con la sdemanializzazione del Porto Vecchio, inizialmente ribattezzato “Porto Vivo”. Si tratta di 700.000 m² di zona portuale internazionale, sottratti illegalmente alla disciplina del Trattato di Pace del 1947. Il Porto Vecchio fu concepito come estensione della Reichsunmittelbare Stadt Triest, che attorno al Canal Grande, nel Borgo Teresiano e fino alla Lanterna, non riusciva più a contenere il traffico di merci da distribuire fino in Baviera, Transilvania, Sarajevo in Bosnia e Leopoli in Galizia.

Trieste, porto franco dell’Impero: snodo vitale tra mare e Mitteleuropa, cuore pulsante dei traffici internazionali dell’epoca
Dopo anni di promesse di capitali arabi, americani, russi e venusiani, si conferma quel che si sapeva fin dall’inizio: il vero piano è l’urbanizzazione selvaggia. Palazzine, musei finti, uffici. Ma i primi 15 metri e le banchine resteranno vincolati internazionalmente. Eppure, ci raccontano la favola del “Porto Vivo” o come lo chiameranno — un cadavere ben truccato per il ballo in maschera degli speculatori.
E come allora, anche oggi i giovani scappano da Trieste. La città, nonostante l’arrivo di immigrati, è l’unico centro urbano europeo in declino demografico costante. Un risultato straordinario — e totalmente italiano — che meriterebbe un premio all’incompetenza strutturale. Tutto questo in una città inconcepibilmente ancora drogata di un ipernazionalismo tricolore post-risorgimentale, che continua a offuscare ogni riflessione seria.
4. Conclusione
La visione contenuta nel rapporto di Rusinow del 1960 resta più attuale di tutte le conferenze stampa ministeriali: Trieste ha senso solo come piattaforma logistica internazionale, autonoma, orientata verso Centro Europa, Balcani e Levante. Ogni altra direzione è una forzatura geopolitica.
Trieste non ha bisogno di piani strategici disegnati da Washington, né di memorandum firmati con Pechino. Ha bisogno di riappropriarsi del suo ruolo naturale. Ogni altro disegno è una maschera. E i triestini, ancora una volta, restano a guardare. Ma questa volta, forse, è tempo di parlarne e agire.
– Alessandro Gombač –