C’è chi arriva ancora a definire Trieste “capoluogo friulano”. Lo scrive con candore, come se fosse una banalità geografica. Invece è una bestemmia. Perché Trieste non è mai stata friulana, né italiana nel senso che lo intendono quelli cresciuti a pane, foibe e tg1. Trieste è — anche oggi — un Territorio Libero sotto tutela ONU, con un porto internazionale al servizio dell’Europa centrale e dei Paesi non allineati. Ma di tutto questo, nel tripudio di articoletti celebrativi e narrazioni tossiche, non resta traccia.
L’ultima perla arriva da un certo Emanuele Cristelli — politicante di piccolo cabotaggio tra Calenda e rottami vari — che dalle colonne de il Riformista firma un panegirico su Trieste come “nuova scommessa italiana”. Con toni da depliant fieristico, ci racconta di una città “che cresce”, che “investe”, che “riparte”. Ma non dice per chi. E soprattutto, a che prezzo.
Perché Trieste non riparte: viene ricostruita da zero per piacere ai forestieri, svuotata della sua identità, sterilizzata per il turismo, piegata alle esigenze di logistica e propaganda. La chiamano “porta d’accesso al cuore dell’Europa”, ma la trattano come uno zerbino. La vogliono museo, luna park, vetrina. Ma non viva. Non libera.
E già che ci siamo: anche quella storia del “capoluogo” è una trappola. È dal 1963 che cercano di incatenare Trieste al baraccone regionale del Friuli Venezia Giulia. Quella nomina a “capoluogo” non fu un riconoscimento, ma un vincolo: una manovra amministrativa per incorporare, soffocare, normalizzare, addomesticare. Si era in piena guerra fredda diplomatica con la Jugoslavia — e la trovata italiana di inglobare Trieste nella nuova regione autonoma fu una mossa speculare all’annessione de facto della Zona B da parte slovena. Ovviamente non lo fecero con un atto di sovranità esplicita, ma con i soliti giochi di sottogoverno, eseguiti da mezzecalzette locali su ordini provenienti da Roma. E così, passo dopo passo, si cucì addosso a Trieste un vestito tricolore cucito con l’inganno, che non le appartiene. Con l’obiettivo — mai dichiarato ma sempre perseguito — di cancellarne lo statuto internazionale.
Il vero motore economico? Sempre lui: il porto. Quello stesso porto che l’Italia non ha mai avuto il diritto di annettere, ma che ha trasformato in cassa privata per interessi pubblici e privati. Oggi ci raccontano che sta diventando un nodo fondamentale della “via del Cotone”, un nome finto-esotico per un corridoio che non esiste. Non ci sono i treni, non ci sono le navi, non c’è la domanda. C’è solo una cosa: militarizzazione. Quella sì che è reale. La “via del Cotone” è una bufala geopolitica: serve solo a far passare l’idea che Trieste debba continuare ad essere presidio NATO, retrovia del Trimarium, trampolino di lancio per le nuove guerre più o meno fredde in salsa europea.
L’unica vera alternativa, concreta e utile, era il progetto euroasiatico con la Cina e i BRICS. La Belt and Road Initiative avrebbe portato traffici, lavoro, connessioni reali. L’hanno sabotata. Perché? Perché troppo libera, troppo autonoma, troppo fuori controllo. E allora meglio il teatrino della “rigenerazione urbana”: alberghi, cementificazioni, speculazione. Il Porto Vecchio, 600.000 metri quadrati che potrebbero essere un motore indipendente, ridotto a zona franca per catene alberghiere, resort per crocieristi e “smart district” per qualche startup telecomandata.
In mezzo a tutto questo, si tira fuori perfino l’Università. L’ateneo che ha storicamente represso ogni tentativo di raccontare la verità su Trieste, che ha negato una sala al prof. Alfred de Zayas, ex esperto ONU di diritto internazionale, colpevole di voler parlare del Territorio Libero. Oggi ce la vendono come faro di innovazione, come se bastasse qualche corso sull’intelligenza artificiale per far dimenticare settant’anni di silenzi e complicità.
E mentre i giornalisti di corte si affannano a mostrarci una Trieste “nuova”, quella vera sparisce: chi non ci sta viene marginalizzato, ridicolizzato o ignorato. Trieste, laboratorio di normalizzazione. Trieste, colonia interna da rendere docile e redditizia. Trieste, oggetto da rimettere in vetrina dopo averla privata dell’anima.
Ma finché c’è qualcuno che la conosce, la ricorda e la racconta per quella che è — scomoda, aspra, disobbediente — non avranno vinto.
Alessandro Gombač