Sommario:
- Introduzione
- I soci dell’Interporto di Trieste S.p.A.
- Cos’è un “punto franco” secondo il Trattato di Pace
- Il Porto Vecchio: bene internazionale, funzione pubblica
- L’operazione FREEeste: lo spostamento del punto franco
- British American Tobacco: non un ospite, ma un padrone
- Il caso MSC e l’opacità operativa
- Dalla città imperiale al magazzino di seconda mano
- L’ebete euforia del Partito Democratico
- L’amministrazione USA-UK su Trieste (1947–1954)
- Conclusione: la zona franca per chi ha le chiavi
1. Introduzione
Negli ultimi anni, il dibattito sulla trasformazione del Porto Vecchio di Trieste ha assunto toni mistificatori, dove termini come “riqualificazione” e “innovazione logistica” vengono utilizzati per coprire un’operazione contraria ben più grave: lo smantellamento di una funzione pubblica storica, internazionale e collettiva. Il trasferimento del punto franco doganale dall’area portuale storica a una retro-area industriale privata, gestita da Interporto S.p.A., ha segnato una discontinuità radicale. Il nome “FREEeste” è la confezione patinata di un processo di privatizzazione economica, giuridica e simbolica.
2. I soci dell’Interporto di Trieste S.p.A.
FREEeste è una retro-area industriale in proprietà esclusiva di una società italiana di capitali, l’Interporto di Trieste S.p.A. Di seguito la compagine aggiornata:
- Friulia S.p.A. (Finanziaria regionale FVG): 31,99%
- Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale: 20%
- Camera di Commercio Venezia Giulia: 16,54%
- Comune di Trieste: 11,05%
- Comune di Monrupino: 5,52%
- Duisport (porto pubblico tedesco): 15%
- Comune di Gorizia: quota simbolica

Interporto di Trieste S.p.A.: l’architettura societaria dietro FREEeste. Formalmente pubblica, operativamente opaca. È qui che è stato spostato – senza legittimità internazionale – il “punto franco” del Porto Vecchio, bene demaniale del Territorio Libero di Trieste.
Formalmente, la maggioranza è pubblica. Di fatto, l’accesso all’area è regolato internamente e condizionato da logiche di impresa privata che poco o nulla hanno a che fare con un punto franco.
3. Cos’è un “punto franco” secondo il Trattato di Pace
Il Trattato di Pace con l’Italia del 10 febbraio 1947 istituiva cinque “punti franchi” nel porto di Trieste. Queste aree godevano di regime extra-doganale e giurisdizione internazionale. L’accesso doveva essere aperto e garantito, nell’interesse del commercio internazionale e dei cittadini del Territorio Libero di Trieste, come determinato dall’allegato VIII. Non si trattava di zone economiche speciali qualunque: erano strumenti di neutralità commerciale e diritto pubblico internazionale.
4. Il Porto Vecchio: bene internazionale, funzione pubblica
Il Porto Vecchio, cuore storico e produttivo di Trieste, era uno dei punti franchi più significativi. Non solo per la sua potente funzione commerciale, ma anche per il suo valore simbolico: era un pezzo tangibile del regime internazionale del Territorio Libero. La sua “sdemanializzazione” è stata l’inizio della dismissione della sovranità pubblica su quell’area.
5. L’operazione FREEeste: lo spostamento del punto franco

FREEeste: il simulacro inland del punto franco internazionale. Priva di banchine, priva di legalità internazionale, priva di trasparenza. Riservata a multinazionali selezionate.
Nel 2019, il punto franco industriale è stato formalmente trasferito dal Porto Vecchio all’area di Bagnoli della Rosandra, dentro FREEeste, proprietà di Interporto SpA. Il regime doganale è stato traslato, ma la natura pubblica è venuta meno. Il risultato è una zona extra-doganale di fatto privatizzata, accessibile solo a grandi gruppi industriali.
6. British American Tobacco: non un ospite, ma un padrone
BAT è la prima e, a oggi, unica grande realtà operativa a FREEeste. Colosso britannico del tabacco, ha acquisito anche l’ex Monopolio di Stato italiano. Non è entrata su invito, ma imponendo condizioni: la designazione dell’area come punto franco industriale è stata uno dei prerequisiti per il suo insediamento. Nessuna impresa locale avrebbe potuto negoziare in questi termini. E non è un caso se i protagonisti sono USA e UK: gli stessi che furono amministratori diretti del Territorio Libero dal 1947 al 1954. A due anni dall’inaugurazione dell’Innovation Hub di BAT a Trieste, i numeri parlano chiaro: investimenti raddoppiati nel 2024 (168 milioni di euro), produzione in crescita, utile reinvestito, occupazione passata da 114 a oltre 290 unità. Con una filiera locale in espansione, BAT si conferma come l’unico soggetto realmente operativo nel “punto franco” di FREEeste, e lo fa da posizione dominante.
7. Il caso MSC e l’opacità operativa
Anche MSC ha annunciato di voler realizzare a FREEeste uno stabilimento per la produzione di vagoni ferroviari. Ma a oggi, non esistono dati certi sull’effettivo avvio della produzione né sulla verifica dell’applicazione del regime extra-doganale. Nessuna trasparenza, nessun controllo pubblico dichiarato. Tutto avviene sotto la soglia della visibilità civica. Solo il 2 luglio 2025 è uscito dalla linea il primo vagone ferroviario prodotto da Innoway Trieste, joint venture tra Innofreight e MSC, che ha rilevato lo stabilimento Wärtsilä. Un traguardo simbolico, ma ben lontano dalla realtà precedente: lo stabilimento contava oltre mille dipendenti, oggi si è partiti con appena 50. In teoria, dovrebbe diventare il sito di produzione carri merci più avanzato d’Europa entro il 2027. In pratica, oggi, è poco più di un cantiere in costruzione.
8. Dalla città imperiale al magazzino di seconda mano

Il Porto Vecchio: testimonianza materiale della sovranità internazionale su Trieste. Sette ettari di traffici e infrastrutture a regime extra-doganale, protetti dal diritto internazionale. Cancellato senza titolo dallo Stato italiano, sostituito con una caricatura inland.
FREEeste non è il Porto Vecchio. E non è nemmeno la sua caricatura. È qualcosa di radicalmente diverso e infinitamente più povero. Il Porto Vecchio era la trasposizione economica della vecchia Reichsunmittelbare Stadt triestina: una città imperiale direttamente collegata al mondo via mare, con i suoi sette ettari di traffici internazionali, delimitati proprio lì perché l’area del Canal Grande collassava di attività. FREEeste, al confronto, è una retroarea industriale senza accesso diretto al mare, che ospita una singola multinazionale angloamericana e forse, un giorno, un’industria ferroviaria. È la negazione stessa della funzione portuale storica. O come direbbe Fantozzi: una cagata pazzesca.
9. L’ebete euforia del Partito Democratico
Nel 2014, al momento della illegittima sdemanializzazione del Porto Vecchio, andò in scena una delle pagine più grottesche della politica triestina: una ubriacatura di retorica e autocompiacimento da parte dei vertici del Partito Democratico locale e nazionale. Debora Serracchiani parlò di “svolta epocale” e di “sistema doganale unico in Europa”. Il sindaco Dipiazza si commosse: “mi sono emozionato”. Francesco Russo, esecutore della sdemanializzazione del porto vecchio, proclamò che avevano “cambiato il futuro della portualità triestina”. Ettore Rosato parlò di “rivoluzione”, Antonella Grim di “successo insostituibile del PD”. Il M5S si accodò con entusiasmo tardivo. Eppure nessuno spiegò una verità giuridica semplice: il Porto Vecchio era un bene demaniale, cioè un bene dello Stato, cioè di tutti – ma in questo caso, non dello Stato italiano, bensì del Territorio Libero di Trieste, vincolato dal Trattato di Pace del 1947. Cosa hanno fatto invece gli amministratori italiani? Hanno cancellato un bene demaniale appartenente a un altro Stato, senza alcun titolo legale, fingendo di “spostarne” la funzione doganale altrove, dentro un’area privata. Un vero scippo, mascherato da modernizzazione. Tutto questo fu venduto all’opinione pubblica come “visione”, “rilancio”, “opportunità”. In realtà, fu solo l’esecuzione docile di un piano economico di spoliazione, compiuto per cancellare ogni traccia concreta della sovranità del Territorio Libero, rendere irreversibile l’annessione, e colpire al cuore la memoria storica e politica di quella che consideravano “la Stalingrado indipendentista”. Altro che logistica: fu un Ground Zero giuridico e simbolico, pensato per abbattere le fondamenta visibili della legalità internazionale sul porto di Trieste.
Zeno D’Agostino nel 2019: il futuro promesso
“Un nuovo hub retroportuale che proietta Trieste nel futuro del commercio europeo.”
D’Agostino presenta FREEeste come la naturale evoluzione del Porto Franco.
“Abbiamo trasferito funzione e vantaggi del punto franco in questa area […] dotata di tutte le infrastrutture.”
Parole che suggeriscono uno spostamento semplice, ma tacciono sul fatto che l’area sia privata e lontana dal mare.
“Non è un terminal isolato: è un polo integrato capace di attirare grandi investimenti.”
La retorica della modernizzazione, declinata in chiave mercatista e multinazionale.
A distanza di sei anni
Quelle parole pronunciate nel 2019 oggi suonano come una narrazione persuasiva costruita per coprire una trasformazione profonda e irreversibile: da punto franco internazionale a zona doganale privatizzata.
D’Agostino non menzionava:
l’esclusione illegittima del Porto Vecchio dal demanio internazionale,
la natura regolata privatamente della nuova area,
né l’impatto sulla sovranità commerciale pubblica.
FREEeste non è mai stato un porto. È un’infrastruttura per pochi.
E le celebrazioni del 2019 — oggi — si rileggono per ciò che furono:
retorica da inaugurazione, con in sottofondo il funerale della legalità internazionale.
10. L’amministrazione USA-UK su Trieste (1947–1954)
Dal 1947 al 1954, il Territorio Libero di Trieste è stato affidato all’amministrazione militare provvisoria angloamericana. Non fu mai revocata formalmente. Oggi, quelle stesse potenze tornano, non (solo) con le armi, ma con i marchi industriali. L’accesso preferenziale di BAT e il silenzio politico che lo circonda sono il segno della continuità di un potere esterno che si è fatto logistica.
11. Conclusione: la zona franca per chi ha le chiavi
Il punto franco era uno strumento di libertà commerciale per Trieste e per il mondo. FREEeste è una zona doganale su misura per multinazionali. Le istituzioni locali e regionali, ben lungi dal difendere la vocazione internazionale del porto, hanno favorito la privatizzazione di uno degli strumenti più potenti della sovranità civile e commerciale del Territorio Libero. In silenzio. Senza passaggi pubblici. Senza dibattito.
Non c’è più nulla di “free” in FREEeste. Se non il nome.
– Alessandro Gombač –