Nel mondo della politica italiana, dove le parole spesso valgono più delle azioni, si è tentato uno dei giochi di prestigio più audaci della storia repubblicana: far scomparire un trattato internazionale con un emendamento infilato nella legge di bilancio (link). Una roba da illusionisti da teatro dei Salesiani, con la bacchetta magica comprata all’edicola sotto Palazzo Chigi. Ma la verità, come sempre, fa più rumore del silenzio.
Dal Commissario per la Zona A al Governatore regionale
Nel 1954, con il Memorandum di Londra, l’Italia ottiene l’amministrazione civile provvisoria della Zona A del Territorio Libero di Trieste. Non la sovranità. E il rappresentante dello Stato italiano è chiamato Commissario del Governo per la Zona A. Una figura transitoria, precaria, vincolata alle norme del Trattato di Pace del 1947.
Poi, nel 1963, arriva la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia. Ed ecco il trucco: il Commissario per la Zona A si trasforma, senza colpo ferire, in Commissario per l’intera Regione.
Così Trieste, che doveva essere un territorio indipendente con porto franco internazionale, finisce amministrata come una provincia qualsiasi. Una vera e propria incorporazione mimetica. Roba da comparse da cinepanettone istituzionale. Ma sempre illegittima sul piano del diritto internazionale.
Il colpo finale: l’emendamento del 2017
Vale la pena ricordare che quando furono annunciati i decreti attuativi “Padoan–Delrio”, destinati a completare l’illusorio passaggio dei poteri dal Governatore-Commissario del TLT al Presidente dell’Autorità Portuale, a Trieste si respirava un’aria da festa patronale. Tutti felici, euforici, gaudenti.
Gli organi di stampa locali inneggiavano all’evento come se si fosse riaperto il Canale di Suez. Il CLPT, sedicente sindacato dei portuali, batteva le mani come a un comizio di fine campagna elettorale, per non parlare di “tielletini” confusi galvanizzati perché qua e la c’era scritto “allegato VIII” e “Trattato di Pace”. E il sottobosco massonico triestino — quello che non compare mai nei documenti ufficiali ma c’è sempre quando si tratta di maneggiare potere e immobili — faceva i salti di gioia.
Per un attimo, sembrava che bastasse l’annuncio in conferenza stampa per far sparire un Trattato di Pace firmato da mezza Europa. Come se bastasse l’euforia per ribaltare il diritto. Ma la realtà, purtroppo per loro, è un po’ più ostinata. Il risveglio fu una potente tranvata sui denti — silenziosa, ma secca. Solo che l’ammettere di aver architettato un idiozia simile implicherebbe ridimensionare l’ego, e questo, si sa, non rientra nelle competenze di chi campa di vanagloria e autoreferenzialità. Così, si continua a far finta di niente. Si gira la faccia dall’altra parte. Come sempre.
Il capolavoro dell’emendamento 8.45 35-septies — quello che tenta di far sparire il Commissario di Governo per far apparire un Presidente d’Autorità Portuale con poteri da governatore coloniale — è un prodotto, come la sdemanializzazione del Porto Vecchio, interamente Made in PD, partorito in seno alla V Commissione Bilancio della Camera, allora presieduta da Francesco Boccia. Toscana e Liguria le regioni d’origine di buona parte dei firmatari, che pensarono bene di riscrivere un trattato internazionale tra un piano triennale e un panettone parlamentare.

Screenshot del dossier parlamentare sull’emendamento 8.45 alla Legge di Bilancio 2018. Due righe scolpite nella pietra del raggiro: il Commissario sparisce, al suo posto arriva il Presidente dell’Autorità Portuale. E il riferimento al Trattato di Pace? Usato come foglia di fico. La sovranità? Cambia cappello, ma non ha più testa.
Con l’emendamento 8.45 al ddl C.4768, legge di bilancio 2018, approvato il 18 dicembre 2017, si compie un passaggio che, se non fosse vero, sembrerebbe scritto da uno sceneggiatore satirico sotto acido:
a) le parole: «Il Commissario di governo per il Friuli-Venezia Giulia» sono sostituite dalle seguenti: «Il presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico Orientale»;
b) dopo le parole: «di punto franco» sono aggiunte le seguenti: «ai sensi dell’Allegato VIII del Trattato di Pace del 10 febbraio 1947, ratificato con legge 25 novembre 1952 n. 3054».
In due righe e mezzo, l’Italia tenta il colpo gobbo: abolire la figura prevista dai trattati internazionali (il Commissario governativo per la Zona A del Territorio Libero di Trieste) e trasferire i suoi poteri a un Presidente dell’Autorità Portuale — una figura nazionale, nominata a Roma, con funzione tecnica ma ambizione politica. Come dire: da governatore a direttore. Dalla legalità internazionale al bricolage normativo.
Con la speranza che nessuno se ne accorga. E se se ne accorge, pazienza: si dirà che era solo una “razionalizzazione amministrativa”. Il solito trucco da prestigiatori da retrobottega, convinti di poter truccare le regole di un Trattato di Pace firmato da mezza Europa come se si trattasse del regolamento condominiale.
Nel 2017, il Parlamento italiano decide che è tempo di chiudere il cerchio, senza sapere neanche di cosa si sta parlando: si cambia la legge di bilancio, si fa sparire il “Commissario di Governo” e si mette al suo posto il Presidente dell’Autorità Portuale. Un presidente con l’aria da manager e, sulla carta, con i poteri del Direttore del Porto Libero previsti dal Trattato del ’47.
Peggio ancora: avrebbero voluto trasferire gran parte dei poteri del Governatore della Zona A — come lo erano stati Terence Sidney Airey e Sir Thomas John Winterton — al Direttore del Porto, questa volta italiano. Un corto circuito istituzionale dove un funzionario tecnico, nominato a Roma, avrebbe avuto competenze politiche e sovranazionali che spetterebbero, per trattato, a un’autorità indipendente con mandato internazionale. Come mettere un bidello a dirigere il Foreign Office.
Ma il trucco non riesce. Il coniglio non esce dal cilindro. Neanche se lo disegni.

Sir John Winterton, ultimo Governatore del TLT. Poi sono arrivati i direttori di porto, le leggi truccate e la burocrazia creativa. Ma i trattati di pace non si cambiano con la biro del primo funzionario ministeriale.
Il gioco dei tre bussolotti, finalmente svelato
Nel Piano Triennale del Porto di Trieste 2017–2019, il gioco è descritto con calma olimpica e linguaggio da ragionieri in doppiopetto. Una perla tra le righe a pag. 70:
“Nel corso del 2016, a valle del processo di sdemanalizzazione del ‘porto storico’ di Trieste iniziato nel 2014 (vedi Cap.6 e 7), tutte le aree del porto storico sono entrate definitivamente a far parte del patrimonio del Comune di Trieste.”
Traduzione per chi ha ancora il senso del ridicolo: il Porto Franco è internazionale solo sulla carta intestata. Per tutto il resto, decide il Comune di Trieste. Urbanistica, uso del suolo, autorizzazioni. Dove dovrebbe comandare un Direttore indipendente sotto tutela internazionale, troviamo il Piano Regolatore Comunale e magari pure il geometra raccomandato con la penna bic dietro l’orecchio.

Specialità italiana, il gioco dei tre bussolotti sul marciapiede. A Trieste lo hanno giocato in Parlamento, con la Costituzione in una mano e il Trattato di Pace sotto al tappetino. Peccato che il diritto internazionale non c’è sotto nessun bussolotto.
Poi, per non farci mancare nulla, si cita pure l’Allegato VIII del Trattato del ’47. Ma solo quando serve a decorare qualche slide per Bruxelles. Nella pratica quotidiana? Manco a parlarne. Il trattato è trattato come carta straccia. O peggio, come foglietto illustrativo di un medicinale scaduto.
E il Presidente dell’Autorità Portuale? Presentato come tecnico, ma agisce come un viceré. Ha in mano le chiavi del porto, i rapporti con dogane, capitaneria, Comune e Regione. Altro che gestione neutrale: qui siamo al comando unificato sotto tricolore. Il tutto, con l’eleganza istituzionale di un assalto alla diligenza.
Perché hanno fallito
Perché i trattati internazionali non si modificano con una legge nazionale. Non si possono svuotare di senso con un emendamento infilato tra un bonus bebè e un taglio alle accise. Il Trattato di Pace del 1947 è ancora in vigore. L’Allegato VIII prevede un Porto Franco Internazionale, amministrato da un Direttore indipendente nominato su base internazionale. Non da un presidente portuale scelto a Roma e messo lì a fare da scudo umano all’illegalità.
Questo non è solo un problema tecnico. È un tentativo maldestro di sovvertire l’ordine giuridico internazionale con strumenti interni. Una scorciatoia da baraccone, come chi pretende di cambiare le regole del Monopoli mentre sta perdendo. E barando.
Conclusione: il diritto non è una metafora
Come direbbe Massimo Fini: “In Italia non si cambia la realtà, si truccano le carte finché sembra un’altra“. Ma Trieste non è un miraggio. È un territorio con uno status internazionale chiaro, definito, ancora valido.
Hanno tentato il colpo. Ma non è passato. Perché Trieste non appartiene. E chi continua a puntare sul tavolo sbagliato, prima o poi scopre che il banco vince sempre. Specie quando il banco si chiama diritto internazionale, e i giocatori italiani sembrano più ludopatici istituzionali che strateghi della Repubblica.
– Alessandro Gombač –