«Ci sentivamo stranieri in un paese strano, come se passando l’Isonzo avessimo varcato una frontiera invisibile, ma tangibile. Eravamo passati dall’Italia a quella che sarebbe diventata una ‘terra di nessuno’ fra l’Europa Occidentale e l’Europa Orientale.»
— Geoffrey Cox, La corsa per Trieste (1945)

«Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico, una cortina di ferro è scesa attraverso il continente.» — Winston Churchill, 1946
Basta attraversare l’Isonzo per capire che qualcosa cambia. Lo capivano i soldati inglesi nel ’45. Lo percepisce ancora oggi chi ha l’onestà di guardare Trieste per quello che è.
Trieste non è una città italiana nel senso in cui lo sono Milano o Bologna. Non lo è mai stata.
Trieste è un’anomalia. E, come tutte le anomalie, fa paura. Per questo viene rimossa.
Il problema è che Trieste non appartiene.
Non a un’identità univoca, non a una nazione, non a un racconto di comodo. Non appartiene nemmeno a chi oggi ci vive e finge che tutto sia normale. Trieste è sempre stata un progetto imposto da fuori, e una ferita aperta per chi cerca di incasellarla.
I trattati, il diritto, e la comoda amnesia
Il Trattato di Pace del 10 febbraio 1947, firmato tra l’Italia sconfitta e le Potenze Alleate vincitrici, è un trattato in vigore, seguito a una guerra da 60 milioni di morti. Punto.
All’articolo 21 istituiva il Territorio Libero di Trieste, con un proprio ordinamento, un porto franco internazionale (Annex VIII), una struttura di neutralità garantita dalle Nazioni Unite.
Roma, dal canto suo, ha avuto in affidamento solo una amministrazione civile, mai una sovranità.
Eppure ha agito, da subito, come se il problema fosse risolto. Come se la carta fosse solo carta. Come se le firme di Parigi fossero inchiostro evaporato.
È così che si cancellano i diritti: con la prassi, col silenzio, con la scuola che non insegna e con l’anagrafe che assorbe.
Marx e la città senza passato
«Venezia era una città di reminiscenze nostalgiche; Trieste condivideva lo stesso privilegio degli Stati Uniti di non avere alcun passato. Modellata da una masnada variopinta di mercanti-avventurieri italiani, tedeschi, inglesi, francesi, greci, armeni ed ebrei, non era incatenata dalle tradizioni.»
— Karl Marx, The Maritime Commerce of Austria, 1857
Lo scrive Marx, e chi lo ha letto con attenzione lo sa: Trieste non è figlia della storia, ma del commercio e dell’emporialità.
Non della cultura nazionale, ma della mescolanza. È un esperimento riuscito di mondialismo ottocentesco, ben prima che qualcuno inventasse il termine “globalizzazione”.
E oggi? Oggi quel DNA fa gola a molti.
Engels, Churchill e la faglia geopolitica
«La frontiera naturale della Russia corre da Danzica a Trieste.» — Friedrich Engels, 1855
«Una cortina di ferro è calata sull’Europa, da Stettino a Trieste.» — Winston Churchill, 5 marzo 1946
Anche i grandi lo avevano capito: Trieste è dove si incrociano gli imperi.
Nel 1945 Churchill la cita come estremo meridionale della nuova Guerra Fredda. Perché lì finisce l’Occidente e inizia qualcos’altro. E non è mai cambiato.
E oggi? Nuova Guerra Fredda, stessi fantasmi
La storia si ripete, ma con container e satelliti, per adesso.
Oggi:
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I cinesi vogliono Trieste come terminale occidentale della Belt and Road Initiative. Hanno messo gli occhi, i soldi e la strategia.
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Gli americani rispondono con il Trimarium, la loro nuova sfera d’influenza adriatico-balcanica. Trieste, per Washington, interessa solo come porto militare: è sotto l’ombrello NATO dal dicembre 1954, in piena violazione dello status internazionale smilitarizzato stabilito dal Trattato di Pace.
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Nel frattempo, l’Ungheria, Paese di riferimento per la Cina nell’Unione Europea, si è presa 3,5 ettari dell’area ex Aquila, dichiarando senza mezzi termini che “Trieste è il porto dell’Ungheria”. Una frase che vale più di mille trattati dimenticati nei cassetti.
Terminal ungherese area ex Aquila operante in regime di allegato VIII “Trieste è il porto dell’Ungheria”. Lo status del Porto Franco di Trieste è per il beneficio non solo di tutti i firmatari del Trattato di Pace, ma per tutti gli Stati dell’Europa centrale.” Dall’expertise Grant & Verdirame – 2014
E in mezzo? In mezzo ci siamo noi.
O meglio: c’è Trieste. Senza voce, senza potere, con una legalità calpestata da tutti — amici, alleati e concorrenti.
L’Italia e l’Isonzo
C’è un fenomeno ricorrente: quando gli italiani superano l’Isonzo da ovest verso est, diventano nazionalisti. È una forma di autodifesa, quasi.
Sentono che sono usciti dal loro mondo, da quel tessuto omogeneo che va da Milano a Palermo, e allora si aggrappano al tricolore come un ubriaco al primo appiglio del bar, per non cadere.
Non capiscono. E quando non si capisce, si impone.
Roma ha gestito Trieste come una colonia scomoda, un’anomalia da assorbire a forza di repressione, omissione, folklore, e quella “sovranità culturale” che passa dai giornali, dalle scuole, dalle carte d’identità.
Ma non funziona. Perché Trieste non si lascia ridurre.
Conclusione: Trieste resta un problema aperto
Il diritto internazionale non è un optional.
Il Trattato di Pace del 1947 è ancora valido. Il Porto Franco internazionale è violato ogni giorno da normative italiane che non dovrebbero applicarsi lì.
La libertà di accesso per tutte le bandiere (art. 5, Annex VIII) è stata calpestata con le sanzioni UE imposte alla Russia anche lì, in violazione del regime internazionale vigente.
Il problema è che nessuno lo dice.
O meglio: qualcuno lo dice da anni. Ma viene ignorato, isolato, ridicolizzato.
Eppure — come in ogni momento in cui la storia si finge finita — la verità si fa strada.
Trieste non appartiene.
E non lo diciamo per nostalgia, ma per diritto. Per geografia. Per storia.
Perché è così, che piaccia o no.
Alessandro Gombač