Cos’era la scala mobile (e perché doveva sparire)
La scala mobile era un meccanismo automatico di adeguamento dei salari all’inflazione. Fu introdotta in Italia nel 1945 dagli accordi tra Confindustria e sindacati, e poi rafforzata nel Protocollo Intersindacale del 1975, diventando uno strumento strutturale: ogni tre mesi, i salari venivano automaticamente rivalutati in base all’aumento del costo della vita (indice ISTAT).
Un sistema semplice, ma potentissimo. Talmente equo da diventare intollerabile per l’establishment economico, che non poteva accettare che i lavoratori difendessero il proprio potere d’acquisto senza inginocchiarsi davanti al datore di lavoro.
Un’anomalia agli occhi dei “grandi sacerdoti” del libero mercato, quelli che ben presto sarebbero diventati i nuovi dèi del vincolo esterno.
La scala mobile non richiedeva negoziazioni o concessioni: ogni lavoratore dipendente aveva diritto alla rivalutazione periodica del proprio stipendio, a prescindere dalla forza del suo sindacato o dalla benevolenza del padrone. Era una conquista sociale, non un favore.
Negli anni ’80, con l’inflazione a doppia cifra (oltre il 20% nel 1980), divenne il bersaglio di una campagna feroce orchestrata da governo, Confindustria e media. Si sosteneva che “alimentasse l’inflazione”, come se fossero gli stipendi — e non la speculazione, il debito o la politica fiscale — a far aumentare i prezzi.
In realtà, la scala mobile era uno dei pochi strumenti di difesa concreta per milioni di lavoratori italiani, soprattutto nel settore privato. Ma nell’Italia già allora a sovranità limitata, il diktat era chiaro: bisognava “adeguarsi” al modello anglosassone e smettere di proteggere i salari.
Così, tra il Decreto di San Valentino del 1984 e il Protocollo Amato del 1992, la demolirono pezzo dopo pezzo.
Una resa senza condizioni. Un suicidio collettivo — con applausi.
Negli anni ’80 e ’90 l’Italia ha compiuto un suicidio salariale perfettamente consapevole. Ha smantellato la scala mobile, ha applaudito mentre lo faceva, e oggi paga il conto più salato d’Europa in termini di stipendi, costo della vita ed energia.
Ecco una cronistoria senza sconti né amnesie.
1. La prima spallata – Il Decreto di San Valentino (1984)

Roma, 28 gennaio 1985 – Bettino Craxi e Giuliano Amato alla direzione del PSI, pochi giorni prima del referendum sulla scala mobile. Due protagonisti della demolizione salariale che avrebbe segnato l’Italia per decenni.
Il 14 febbraio 1984 il governo Craxi I varò il decreto-legge n. 10, poi convertito nella legge 219 del 12 giugno 1984, che tagliava tre punti di scala mobile ai salari.
Una misura imposta da Confindustria, benedetta da Cisl e Uil, ma rifiutata dalla CGIL e dalla sinistra comunista.
Lo scopo ufficiale era contrastare l’inflazione.
Quello reale? Ridimensionare il potere del PCI e della CGIL, e avviare l’Italia verso il modello anglosassone delle “riforme di struttura”. Craxi fu l’uomo giusto per questa missione.
2. Il referendum tradito – PCI e CGIL perdono la sfida (1985)

Manifestazione a Roma in difesa della scala mobile, 1984. Un popolo scese in piazza per difendere i salari, ma pochi mesi dopo avrebbe votato contro se stesso nel referendum del 1985.

“Ha vinto il fronte del No” – Prima pagina de la Repubblica dell’11 giugno 1985. Il referendum sulla scala mobile viene bocciato con il 54,3% dei voti contrari. Gli italiani, convinti dalla propaganda governativa e da Confindustria, si tagliano lo stipendio da soli. È l’inizio della fine per i salari italiani.
Il 9 e 10 giugno 1985 PCI e CGIL provarono a fermare la manovra con un referendum abrogativo.
Ma gli italiani dissero NO con il 54,3% dei voti. Fu una sconfitta politica netta e pesante.
Il popolo aveva parlato — contro se stesso. Un capolavoro di tafazzismo politico, applaudito dalla stampa compiacente e digerito dal ceto medio come atto di maturità civile.
Quella batosta segnò l’inizio della deriva riformista del PCI, l’inizio della fine della scala mobile, e l’avvio del più clamoroso impoverimento salariale del dopoguerra.
3. La mazzata finale – Il governo Amato abolisce la scala mobile (1992)
Nel luglio 1992, sotto ricatto dei mercati e in piena crisi valutaria, il governo Amato siglò un protocollo triangolare con i sindacati (inclusa la CGIL!) per abolire definitivamente la scala mobile.
Il 31 luglio 1992 venne sancita ufficialmente la fine del meccanismo automatico di rivalutazione salariale.
Da lì in poi: contrattazione aziendale, deregolarizzazione, precariato e blocco salariale strutturale.
4. Cronologia sintetica
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Decreto Craxi – 14–15 febbraio 1984
Taglio di 3 punti di scala mobile -
Referendum – 9–10 giugno 1985
Fallimento del referendum abrogativo promosso da PCI e CGIL -
Abolizione definitiva – 31 luglio 1992
Accordo Amato: fine formale e legale della scala mobile in Italia
5. Il risultato: salari da fame, costi da usura
➤ Salari:
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Italia: 2.017 €/mese netti (2023, media) – tra i salari reali più bassi d’Europa occidentale, ben sotto Francia (~2.300 €) e Germania (~2.500 €), e con un divario Nord-Sud che abbassa ulteriormente la mediana (ca. 1.750 €).
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Unico Paese UE con salari reali più bassi oggi che negli anni ’90.
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Dal 1992 a oggi: crollo reale del potere d’acquisto tra il 25 e il 40%, altro che “solo” -7,3% come dicono i dati addomesticati.
➤ Energia e carburanti:
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Elettricità: 127 €/MWh nel 2024, +50% rispetto alla media UE.
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Gas: terzo più caro d’Europa (16,5 PPS/100 kWh).
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Benzina: stabilmente sopra 1,90 €/l, con accise eterne.
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Lavoriamo come tedeschi, guadagniamo come bulgari. In un continente che corre, l’Italia arranca: stipendi da fame, tasse da sultano, e il popolo contento applaude. Con un salario orario medio da economia depressa, siamo i camerieri d’Europa — ma col mutuo a tasso variabile.
Le imprese italiane pagano energia +35% rispetto alla media UE, con punte fino all’80% in più.
6. Craxi sugli altari “sovranisti”: il paradosso
Oggi Craxi viene celebrato da destra come “padre della patria” per l’episodio di Sigonella (1985), quando si oppose agli USA e ordinò ai carabinieri di bloccare i marines.
Ma è ironico, se non grottesco: lo stesso Craxi fu l’artefice del taglio salariale più grave della storia italiana, aprendo la strada alle politiche imposte dai mercati e benedette da Maastricht.
7. Epilogo amaro: la stupidità istituzionalizzata

Una nazione intera che ha fatto di Tafazzi il suo nume tutelare. E ogni volta che arriva un nuovo “ce lo chiede l’Europa”, si colpisce più forte.
L’Italia è il Paese dove il tafazzismo è diventato sport nazionale: nel 1985 votò per tagliarsi lo stipendio, nel 1992 accettò l’abolizione della scala mobile. Nel 1985 gli italiani votarono per tagliarsi lo stipendio.
Nel 1992 accettarono l’abolizione della scala mobile.
Poi vennero:
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il “ce lo chiede l’Europa”,
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i DPCM di Conte,
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il green pass di Draghi,
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la sudditanza energetica atlantica,
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l’accettazione passiva del piano di riarmo europeo, che devasterà quel che resta del welfare,
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e il carovita made in Trinità dei Colletti Bianchi.
Quando si perde la memoria, si perde tutto.
E oggi l’Italia è il Paese più smemorato d’Europa..
Applaude con sorriso ebete mentre lo depredano, convinta di fregare il mondo.
È il trionfo del tafazzismo istituzionalizzato.
Come scriveva Giorgio Bocca,
«gli italiani credono tutti di essere furbi come Andreotti e di poter diventare ricchi come Berlusconi».
Ed è proprio questo l’eterno problema.
– Alessandro Gombač –