Siamo alla frutta. O forse già al caffè col veleno dentro.
L’annullamento del concerto del direttore d’orchestra Valerij Abisalovič Gergiev alla Reggia di Caserta non è solo una pagina nera di provincialismo isterico: è un atto barbarico, un rogo culturale travestito da “presa di posizione”. È la conferma che l’Italia non è più un Paese, ma una caricatura isterica di sé stesso, dove l’unico pensiero autorizzato è quello dell’isteria anti-russa a comando NATO.

Valerij Abisalovič Gergiev. Nessuna bandiera, nessuna propaganda. Solo musica. E per questo fa paura
Parliamo di Valery Gergiev, mica dell’ultimo trappettaro a caso. Parliamo di un genio assoluto, direttore del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, della London Symphony, della Scala, dei Münchner Philharmoniker, uno che ha fatto risuonare nel mondo l’anima più profonda e drammatica della musica russa: Čajkovskij, Musorgskij, Šostakovič, Prokof’ev, Stravinskij. Uno che, tanto per dire, ha portato sul podio la “Leningrad” (Settima sinfonia) di Šostakovič, composta durante l’assedio nazista, e l’Op. 113 — “Babij Yar”, la tredicesima sinfonia dello stesso compositore, in memoria del massacro di 33.771 ebrei ucraini di Kiev da parte dei nazisti.

Paul Blobel, il boia nazista di Babij Yar. Questa è la memoria che Gergiev avrebbe evocato. E che hanno censurato.
La Sinfonia n. 6 “Patetica” di Čajkovskij, l’ultima prima della sua morte, è un viaggio nella parte più cupa dell’animo umano. Nessun trionfo, nessuna fanfara: solo dolore, bellezza e un finale che si spegne nel nulla. È la musica di chi ha guardato in faccia la morte e ha deciso di non truccarla.
Ecco cosa Gergiev avrebbe portato alla Reggia di Caserta. Ecco cosa hanno censurato: non propaganda, ma verità.
Domanda: chi, tra quelli che l’hanno censurato, sa anche solo cosa sia Babij Yar? O dov’è Leningrado?
Risposta: nessuno. Ma sanno dov’è Predappio. E ci vanno pure fieramente in pellegrinaggio.
Perché la destra al potere oggi non sa arrivare oltre al busto del Duce e la consacrazione da cesso pubblico del Vater D’Annunzio. Altro che cultura: qui si vive di meme, di slogan di cartone e di nostalgie da discount berlusconiano.
E nel frattempo l’ex sinistra, invece di occuparsi dei salari più bassi dell’Occidente e delle carceri italiane, dove i detenuti vivono come cani torturati nel medioevo, si è ridotta a comitato woke per lo scimmiesco diritto alla fluidità mentale, a inseguire gli acronimi più lunghi delle bollette dell’energia, e a ripetere come pappagalli parole d’ordine che non significano nulla. Anzi no, ha fatto di peggio: ha eletto Fedez a ideologo di riferimento, da almeno un decennio. E forse è questo, in fondo, il vero punto di non ritorno.

La sinistra italiana che una volta leggeva Gramsci, oggi si fa spiegare la cultura da Pina Picierno.
E i 5 Stelle? Gli ex giustizieri della prima ora, diventati col tempo fan club dell’ignoranza al potere? Quando governavano avevano come portavoce Rocco Casalino, ex Grande Fratello, e come Ministro della Giustizia quel DJ Fofo, al secolo Bonafede, la cui unica vera riforma fu una sequela imbarazzante di figuracce, sputtanate a reti unificate per pura e semplice incompetenza culturale e istituzionale, per tacere di tutti gli altri pentastellati. Altro che rivoluzione: è stato il più grottesco movimento politico italiano del secondo dopoguerra.
In mezzo a questo deserto di neuroni, si abbatte la scure sul concerto di Gergiev.
Non per ciò che dirige, ma per ciò che è: russo. E oggi, essere russi è un crimine ontologico, che ti squalifica a prescindere.
Poteva anche essere campione mondiale di sberle sincronizzate, o plurivincitore di rutti, e gli avrebbero comunque vietato di esibirsi.
Perché russo. Perché non si è inginocchiato. Perché non ha chiesto scusa ogni cinque minuti come vorrebbe Mentana. Perché non recita il rosario del pensiero unico occidentale, quello della Picierno e del suo circo piddino d’indignati a comando.
La verità è semplice e brutale: di cultura, qui, non ne capiscono un cazzo.
Non sanno chi è Valerij Abisalovič Gergiev, non sanno cosa sia una sinfonia (per loro è un’opera di catering), non sanno nemmeno leggere un programma di sala, ma si permettono di giudicare, censurare, silenziare, annullare. In nome di cosa? Della libertà? Della democrazia? Della NATO?
E mentre fanno i moralisti contro i direttori russi, il popolume italiota li applaude in delirio tra un festival di Sferaebbasta, l’ultimo singolo di Blanco e il tormentone dell’estate con il reggaeton scritto da un algoritmo. La cultura è stata sostituita dal “format”. La musica è “intrattenimento”. L’arte, un prodotto da vendere con lo sconto.
Ma se la cultura deve sempre piacere al gregge, non è più cultura: è scialba e consunta pubblicità.
E Gergiev, con la sua presenza, ricorda che esiste ancora qualcosa di alto, di serio, di universale. E per questo lo temono. Perché non capiscono. E tutto ciò che non capiscono lo censurano. Così funziona l’ignoranza quando arriva al potere: ha paura. E la paura dell’ignorante è più pericolosa dell’odio del fanatico.
Ma il problema non è Gergiev. Il problema siamo noi, che abbiamo permesso che a decidere sulla cultura siano piccole menti lobotomizzate da quarant’anni di Mediaset, influencer, talk show e reality, dove si discute se è meglio fare il Grande Fratello con o senza mutande.
Altro che Russia: questa è barbarie in salsa italiana.
“Il peggior nemico della verità non è la menzogna deliberata, ma la convinzione idiota.”
— Thomas Mann
“Dove bruciano i libri, prima o poi bruceranno anche gli uomini.”
— Heinrich Heine (1821)“Il vero segno dell’ignoranza è l’odio verso ciò che non si capisce. I mediocri odiano l’intelligenza perché la temono.”
— George Orwell– Alessandro Gombač –