Dalla “città anazionale” di Hohenlohe alla città mutilata di Petitti di Roreto. La storia di come Trieste fu conquistata due volte e capita mai.

La torpediniera Audace, prima unità militare italiana a entrare nel porto di Trieste, 3 novembre 1918. Non portava la libertà, ma un governatore militare e un decreto di coprifuoco.
Sbarco e poteri militari
3 novembre 1918. La torpediniera Audace attracca sul molo San Carlo.
Sbarcano i bersaglieri ciclisti e il generale Carlo Petitti di Roreto, nuovo “governatore” militare.
Lo stesso giorno proclama: “Trieste è libera, italiana per sempre”.
Segue però la frase che ne svela il senso: “Ogni disordine sarà represso”.
Altro che annessione: è occupazione militare sotto armistizio.
Trieste passa dall’Austria all’Italia come una preda consegnata al vincitore, un trofeo di guerra da esibire sul tavolo dei trattati.
L’Italia non “libera” Trieste: la conquista come si conquista un bottino.
E quei soldati, molti dei quali non sapevano leggere né scrivere, si trovarono improvvisamente a comandare in una delle città più alfabetizzate d’Europa.
Un luogo dove esistevano scuole quadrilingui — italiano, tedesco, sloveno, ungherese — e dove i commercianti parlavano cinque lingue prima di colazione.
Per i triestini fu come essere invasi da un esercito di alieni in giubba grigioverde, convinti di portare la civiltà a chi già la praticava.
Il proclama di Petitti: l’occupazione in carta e inchiostro
Il 5 novembre 1918, due giorni dopo lo sbarco, Petitti di Roreto firma il primo decreto del Regio Governatorato di Trieste — un documento che parla da solo, oggi visibile anche nei fascicoli dell’Archivio di Stato.
Nell’incipit, l’ufficiale ordina che “tutte le armi di qualsiasi specie attualmente in possesso di privati cittadini” siano consegnate entro 24 ore, pena l’arresto e il giudizio “dal tribunale di guerra”.
Stabilisce inoltre il coprifuoco alle 22:00 e la chiusura obbligatoria dei locali pubblici alle 22:30.

Il proclama del generale Carlo Petitti di Roreto, 5 novembre 1918. La “liberazione” comincia con un ultimatum: consegnare le armi entro 24 ore e chiudere i locali alle 22.
Non è la voce di un liberatore: è la voce dell’occupante.
Un tono da ordine coloniale, più vicino a Khartoum che a un’Europa civile.
Il distacco da un mondo
Quel 3 novembre, scrivono Angelo Ara e Claudio Magris, “segna il distacco di Trieste da un mondo che le era appartenuto per secoli”, quel mondo danubiano e plurale che l’aveva fatta prosperare.
Era la città che il luogotenente Konrad von Hohenlohe aveva definito “una città anazionale, sottratta alle contese tra le nazioni, simbolo unitario del bacino danubiano”.
Quando la Neue Freie Presse di Vienna commentò l’ingresso delle truppe italiane, scrisse:
“La sensazione di una guerra perduta non è mai stata così dolorosa come oggi. Dopo questo avvenimento, la guerra mondiale ha perso per noi anche l’ultimo significato.”
Non era solo una disfatta militare: era la fine di un equilibrio secolare.
Trieste non perdeva solo un impero: perdeva la propria ragione d’essere — il suo essere ponte, non confine.
Quadro legale e catena di comando
Dal 3 al 9 novembre il Regio Esercito prende sotto controllo quella che Roma battezzerà “Venezia Giulia” — un nome mai esistito come entità geografica, coniato nel 1863 dal glottologo italo-goriziano Graziadio Isaia Ascoli e, fino ad allora, usato solo da qualche decina di irredentisti.
Un marchio d’appropriazione, più propagandistico che geografico.
Petitti governa con pieni poteri civili e militari.
Nessuna rappresentanza locale, nessun Parlamento, nessuna autonomia.
Solo ordini, decreti, censura.
La libertà proclamata si traduce nella legge marziale.

Trieste, 1919. Abbattimento dell’aquila bicipite dal palazzo della Luogotenenza austriaca — oggi Prefettura, in Piazza Grande. La damnatio memoriae diventa politica di Stato: cancellare la pietra dell’Impero per scolpire una “nuova italianità” di cartapesta.
E i nuovi padroni, smarriti davanti alla complessità triestina, reagiscono come coloni spaventati: scalpellano via ogni traccia del passato.
Le aquile bicipiti asburgiche vengono divelte dai palazzi, dai frontoni, dai monumenti, persino dagli arredi pubblici.
Un vandalismo sistematico, spacciato per “purificazione nazionale”, che distruggeva la memoria di pietra di una civiltà secolare.
Transizione traballante: nessuna festa, solo fame
Il porto è fermo, le ferrovie bloccate, la città affamata.
Il governo militare interrompe ogni collegamento con Vienna e Lubiana: la Trieste mercantile diventa Trieste prigioniera.
Le voci popolari suonano come una bestemmia patriottica:
“Con l’Austria si campava meglio.”
Un’eresia, ma non una menzogna.
E mentre la città si svuota di merci e di pane, i nuovi padroni non si fanno scrupoli a svuotarla anche di ferro e bulloni.
Una rassegna tecnica dell’epoca ricorda che “dopo l’occupazione italiana del 1919, vennero smontate le migliori gru del porto e trasferite a Genova”.
Ma non erano gru qualsiasi: facevano parte del geniale sistema idrodinamico progettato, manco a dirlo, in epoca asburgica, un capolavoro d’ingegneria che muoveva tutto il porto senza elettricità.
Asportandole, gli italiani ne paralizzarono il funzionamento: un atto tanto stupido quanto crudele, degno di chi vuole punire più che amministrare.
Un “esercito liberatore” che si rivela per ciò che è: una banda di predoni stranieri, venuti a spogliare la città del suo cervello e delle sue braccia meccaniche.
Trieste, laboratorio dell’Impero, ridotta a officina scassinata.

Il Porto Vecchio di Trieste, con le gru idrodinamiche progettate a fine Ottocento. Dopo l’occupazione italiana del 1919, le migliori furono smontate e trasferite a Genova, paralizzando un sistema tecnico unico in Europa. La “liberazione” che disinnesta il lavoro.
Scioglimento del Consiglio Nazionale Sloveno-Croato-Serbo (23 novembre 1918)
Petitti lo scioglie per decreto.
Era il primo segnale di vita democratica in una città multilingue, ma per Roma era un corpo estraneo.
D’ora in poi una sola lingua, una sola bandiera, un solo comando.
Italianizzazione simbolica immediata
Cambiano i nomi, non cambia la fame.
“Piazza Grande” diventa “Piazza Unità d’Italia”: un atto di fede imposto.
La toponomastica diventa propaganda.
Le parole asburgiche vengono cancellate come un reato d’opinione.
Così comincia la rieducazione simbolica della città più cosmopolita dell’Impero.
Purghe amministrative e personale “affidabile”
I funzionari austro-ungarici vengono epurati, gli sloveni e i croati espulsi.
Gli impiegati “austriacanti” perdono il posto.
Gli italiani del Regno occupano scrivanie e alloggi.
Trieste cambia padroni, non amministratori.
È l’anticamera della pulizia etnica culturale che verrà poi perfezionata dal fascismo.
E lo schema si ripeterà decenni dopo
Con la stessa ottusità burocratica.
Nell’ottobre 1954, dopo il recepimento del Memorandum di Londra e il passaggio dell’amministrazione civile dal Governo Militare Alleato al governo italiano, arriva a Trieste Giovanni Palamara, funzionario del Ministero del Tesoro, nominato primo governatore italiano della Zona A del Territorio Libero, dopo i governatori anglo-americani succedutisi nei nove anni precedenti.
Una delle sue prima direttive è emblematica: per ogni triestino allontanato dai pubblici uffici, cinque nuovi impiegati dovranno giungere dalla penisola.
Una regola coloniale copiata dal 1918: più regnicoli, meno triestini.
Il principio resta lo stesso — cambiano solo le uniformi.
La città dalle due anime
Ma — ricordano ancora Ara e Magris — “Trieste non può strozzare la sua doppia anima, le sue due nature, perché in tal modo perirebbe”.
La sua storia, aggiungono, è “il tentativo, spesso autolesivo, di stroncare una delle sue anime o, all’opposto, l’iperbolica compresenza dei contrari.”
Ecco il dramma: nel 1918, la nuova Italia pretende una Trieste con un’anima sola, e così la ferisce mortalmente.
Nel tentativo di farne una città “italiana pura”, la priva della sua essenza.
Il risultato?
Una città mutilata nel corpo e nello spirito — dove l’universalismo asburgico muore e non rinasce nulla al suo posto.
Ritorno dei “regnicoli” e frizioni sociali
Decine di migliaia di italiani del Regno affluiscono a Trieste: funzionari, maestri, poliziotti, preti.
Gli autoctoni vengono messi da parte, sospettati di “austriacantismo”.
La frattura sociale si apre tra chi parla la lingua di Roma e chi parla il dialetto del porto.
Il risultato è una città colonizzata e diffidente: non c’è fusione, c’è conquista.
Internamenti e sparatorie
Tra febbraio e marzo 1919 gli scioperi dei ferrovieri e dei portuali vengono repressi a colpi di cavalleria.
La stessa cavalleria che, solo tre mesi prima, era entrata in città tra la diffidenza e il silenzio.
Nessuna ovazione, nessuna folla in festa: Trieste non applaudì i nuovi padroni, li osservò in silenzio — come si guarda chi è venuto a restare troppo a lungo.
Ora, quegli stessi militari “liberatori” caricano affamati e disoccupati.
I tribunali militari condannano i promotori.
Il patriottismo è finito, l’ordine regna.
Valerio, sindaco a guinzaglio
L’avvocato Alfonso Valerio, ex podestà asburgico, diventa “sindaco italiano”.
Ma decide poco e nulla: ogni atto deve passare per il Governatorato.
Un sindaco sotto tutela militare — simbolo perfetto della nuova libertà concessa.
Due occupazioni, una stessa illusione
Trieste visse due “liberazioni” e nessuna libertà.
Nel 1918 i bersaglieri, nel 1954 i bersaglieri di ritorno.
La prima spense la sua doppia anima; la seconda mise quel che ne restava sotto vetro.
Nel ’18, il sogno di patria si dissolse nella fame e nella censura.
Nel ’54, il sogno d’Italia si ridusse a un protettorato gestito in primis dagli Stati Uniti e dalla NATO, una zona amministrata di fatto tra interessi militari occidentali e compromessi jugoslavi.
In entrambi i casi, Trieste fu trattata come oggetto, non come soggetto.
Gli irredentisti per i quali “mai delusione fu più grande” aspettavano una madre, arrivò una matrigna.
Gli austriacanti, invece, avevano avuto un Impero che li lasciava creare e lavorare.
E forse, come scrisse Magris, “Trieste perisce ogni volta che cerca di strozzare una delle sue due anime.”
Nel 1918 la strozzò l’Italia occupandola, nel 1954 la diplomazia americana barattandola, sacrificata agli interessi politico-strategici italo-jugoslavi di un equilibrio che non le apparteneva.
Il risultato è sotto gli occhi di chi vuole vedere:
una città che non appartiene a nessuno, perché poteva vivere solo come appartenenza di tutti.
Come l’aveva intuito Karl Marx nel 1857:
“Trieste condivideva lo stesso privilegio degli Stati Uniti di non avere alcun passato.
Modellata da una masnada variopinta di mercanti-avventurieri italiani, tedeschi, inglesi, francesi, greci, armeni ed ebrei, non era incatenata dalle tradizioni.”
— Karl Marx, The Maritime Commerce of Austria, 1857
Una definizione che vale ancora oggi: Trieste aveva trovato la propria libertà nell’assenza di padroni.
Da allora, tutti hanno cercato di darle un padrone — e tutti, senza eccezione, l’hanno tradita.
– Alessandro Gombač –

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